Poesia. Presentato a Gubbio “Ritratti di sconosciuti” di Sergio Tardetti

sergio tardetti

di Bruno Mohorovich

E’ stato presentato a Gubbio, presso i locali dell’ex refettorio della Biblioteca Sperelliana, l’ultimo libro di poesie del prof. Sergio Tardetti “Ritratti di sconosciuti”, edito dalla Bertoni Editore. Alla presenza di un numeroso ed attento pubblico, l’incontro è stato introdotto dal saluto del Sindaco della città, Dott. Filippo Stirati che ha sottolineato come la  formazione scientifica di Tardetti, docente d’informatica in pensione, non abbia inficiato con questo lavoro letterario, la sua capacità di penetrare l’animo umano ed al contempo tentare di rispondere ai grandi quesiti propri della natura dell’uomo. La relazione introduttiva sull’opera è stata proposta dal poeta e critico letterario autore di questo articolo.

Un qualcosa che avviene quotidianamente nella nostra vita è incontrare gli altri, incrociare delle esistenze.  Sono presenze, a volte ectoplasmi, volti indistinti ed indefinibili spesso, se non sempre, votati ad essere dimenticati. Eppure qualche rara volta succede che col pensiero ci si ferma ad interrogarci sulle loro vite, a trarre un giudizio fugace su un loro atteggiamento, un comportamento di cui diveniamo per qualche attimo involontari testimoni.

Insomma ci ritroviamo, inconsapevolmente, a divenire comparse della messa in scena di una commedia umana, quel puzzle che anima la nostra vita fatta di incontri, occasioni, circostanze , abboccamenti.

Ed ogni interprete di questa commedia ha una voce che appare ora sfumata, ora disincantata, ora gentile ed enigmatica.

Così ci appaiono i protagonisti delle liriche di Sergio Tardetti: uomini e donne i più svariati del campionario umano – che inevitabilmente riconducono a due altre opere letterarie: “Spoon River” di Edgar Lee Masters e “Storie di uomini non illustri” di Giuseppe Pontiggia – i quali si lasciano raccontare in una serie di ipotetici incontri, tessuti in ritratti di sconosciuti appunto come rammenta il titolo. O nomi presi in prestito dal mondo della musica come Carmen la sigaraia dall’omonima opera di Bizèt o ancora Zelda che evoca la schizofrenica moglie di Scott Fitzgerald (Il grande Gatsby).

Persone / personaggi indistinti nella loro fisicità, ma ben vivi in parole che segnano un cammino di ricordi, disagi esistenziali, un viaggio malinconico in una serie di istantanee che ci raccontano “che quando la giornata è finita / ( nessuno) non dovrà aver mai vissuto invano”.

Ci piace immaginare che Tardetti, in questo suo percorso,abbia atteso questi suoi compagni di viaggio, ne abbia scrutato le espressioni del volto, i gesti e le relazioni che intessono con le altre persone; e poi si sia fermato a dialogare con queste sue creature, e che queste con lui si siano aperte e ne abbia succhiato la sostanza del loro narrarsi fino a rendere palpabile, per quanto amara, la loro filosofia. E ci fa sentire queste presenze, ci conduce nei luoghi dove le ha incontrate: lo fa immergendoci in un paesaggio virtuale di cui percepiamo i contorni. La strada lungo la quale si consuma un addio (“ non scordarti di me, ti prego”)  o una via notturna, vanamente illuminata dalle stelle, ove si consuma la disillusione del sorriso e si “coglie al volo le facili occasioni” ; o ancora il rientro in una casa di notte “ zoccoli in mano, per non farsi sentire” , i riflettori su un palcoscenico che non si vorrebbe si spegnessero mai , perché per l’artista è lì la vita, illusoria illusione d’essere qualcuno, maschera senza volto che può disvelarsi e nascondersi perché “non si ha fretta di tornare dietro le quinte”…

Nell’esistenza proietta quella che diviene la sua ricerca personale nel tentativo di dare e darsi delle risposte “ in cerca di qualche insolita visione/o di un solido credo”.

E comunque non si sottrae a cogliere le ragioni di un vivere che trova la sua ragion d’essere nel tempo fuggevole ed ingannevole; quel tempo che alla maggior parte dei protagonisti  pare aver serbato un grande avvenire, promesso di approdare a quell’isola che come ricorda Kavafis “Quando ti metterai in viaggio per Itaca/ devi augurarti che la strada sia lunga,/fertile in avventure e in esperienze[…]” ; o ancora “navigare quel mare che non navigammo” alla ricerca – come Ignacio Torres “che “spinge il suo sguardo oltre il confine della pianura” – di nuove scoperte, di un nuovo domani, di un nuovo tempo…un tempo che riserva ai più, ostacoli  creati o ingigantiti da illusorie speranze.

L’altro elemento chiave nella poetica di Tardetti è la perenne dicotomia tra felicità ed infelicità, di chiara derivazione schopeneauriana, dove certamente la prima, nel verseggiare del poeta si ammanta di quell’aura in cui il dolore è ciò che più spesso avvertiamo, rispetto alla gioia.

Nelle sue poesie /ballate  permeate di non celato pessimismo, forte è anche il senso dell’attesa; un’attesa che potrebbe condurre all’immobilismo visto che niente accade mentre si attende; l’attendere è il tempo che si attende. Ma non è tanto l’attesa di qualcosa che deve accadere – e che comunque accadrà anche nel suo non accadimento – ; quanto l’occasione di meditazione, di (ri) pensamento che essa offre su ciò che è stato e potrebbe essere, allora va ascoltata. è la speranza, quel sentimento di attesa fiducioso che permette di essere, di esistere, di pensare che quel qualcosa d’incompiuto oggi, possa essere finito domani. Tardetti cerca di cogliere in ognuno dei suoi personaggi l’essenza della vita proiettando il suo sentire in una ricerca inesauribile di speranza, anche quando questa sembra non esserci, anche quando la rassegnazione, quello “scavalcare il presente e andare avanti”, pare essere l’unica via che lo possa condurre fuori dal buio lacerante delle delusioni, delle amarezze e delle fragilità che contraddistinguono il percorso d’ogni individuo.

 

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