La gatta sul tetto che scotta: l’ipocrisia di una finta normalità

Amore, arrivismo, ipocrisia, omosessualità e dolore sono i protagonisti del dramma, diretto da Arturo Cirillo, tratto da Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta) di Tennessee Williams, opera per la quale l’autore statunitense venne insignito del secondo Premio Pulitzer, dopo quello ottenuto per Un tram che si chiama Desiderio nel 1948.

Sul palco del teatro Morlacchi di Perugia, dal 1 al 6 dicembre, è andata in scena, per la Stagione di prosa a cura del Teatro Stabile dell’Umbria, La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams per la regia di Arturo Cirillo.

La storia è ambientata in una città lungo le rive del Mississippi, nel sud degli Stati Uniti. E’ il compleanno di Papà (Paolo Musio), occasione per la quale tutta la famiglia è riunita per i festeggiamenti: Mamma (Franca Penone), con il suo continuo “berciare” in cerca di un’attenzione di cui, probabilmente, sente la carenza; Brick (Vinicio Marchioni) e Maggie (un’ottima Vittoria Puccini al suo debutto teatrale), coppia di un’infelicità tanto palpabile da far tremare gli animi; Gooper (Francesco Petruzzelli) e Mae (Carlotta Mangione), gli arrivisti, che fingono soffocanti premure al fine di assicurarsi l’eredità del padre. Un’eredità bramata da alcuni e irrilevante per altri, ma pretesto per far emergere il dolore e la sofferenza interiore che si celano dietro ciascun personaggio e che si sveleranno con lo svilupparsi della trama.

Brick – interpretato da un Vinicio Marchioni che, nel momento clou in cui si confronta con il padre, centra perfettamente la forza del personaggio – il grande campione sportivo che è ormai solo l’ombra di sé stesso, sdraiato quasi sempre sul sofà con un bicchiere in mano ed una bottiglia mai abbastanza piena da consolarlo e fargli dimenticare ciò che lo divora dentro. Un uomo che “zoppica” non solo per la frattura ad una caviglia, ma che si trascina sotto il peso del senso di colpa per la morte del suo migliore amico, Skipper.

Maggie, l’inconsolabile ma forte Maggie, disperatamente innamorata di un uomo che la respinge ad ogni sguardo, ad ogni parola, ad ogni tentativo, seppur minimo, di avvicinarsi fisicamente. Lei è la gatta sul tetto che scotta che non vuol perdere la posizione agiata in cui si trova, ma, soprattutto, non vuole accettare il fatto che il “centro del suo mondo” la tratti con fredda indifferenza – l’esilità e lo sguardo vacuo dell’attrice si sposano alla perfezione con il senso di frustrazione proprio di chi si sente respinto –. Lei, che continua ad essere ossessionata dal grande amore per Brick (“Io non vedo altro che te. Persino ad occhi chiusi, non vedo altro che te”), prova tanta gelosia e desiderio per l’oggetto del suo amore da esserne consumata in un vortice di sofferenza inenarrabile. Ancora, Gooper, “l’altro figlio”, viene per secondo (se viene), c’è ma scompare davanti al figliol prodigo (Brick), e la moglie, Mae, donna che si barcamena tra la sua posizione sociale, garantita dall’essere moglie di un avvocato, e il tentativo di governare una squadra di “mostri senza collo” (i suoi figli) che nessuno della famiglia, tra l’altro, sembra apprezzare. La donna sottolinea costantemente il suo ruolo perfetto nella società dettato dal “potere” di essere madre, fonte di vita (una perfezione di cui sente talmente il bisogno da trasparire anche nella scelta dell’abito che indossa, dello stesso colore, rosso scuro, dei suoi capelli). Un ruolo che, come le viene sovente ricordato, Maggie, rea di non aver figli, non può ricoprire. Una “colpa” che alla sensuale e fragile gatta provoca un’ulteriore ed enorme sofferenza.

Tutti si muovono in un unico ambiente, chiuso al mondo esterno se non per un’apertura temporanea sulla siepe che circonda la casa (forse uno spiraglio, una via di fuga dalla angusta realtà), la camera da letto dai colori accesi di Brick e Maggie, dove il rosso e l’azzurro predominano per scelta del regista che vuol ricordare gli interni pittorici degli artisti statunitensi precursori della pop art. Qui si svilupperà anche l’unico momento di (ri)unione tra Brick e il padre che, contravvenendo agli schemi sociali rigidi del tempo, porterà il figlio, con grande comprensione, a scavare dentro sé stesso e a far emergere la vera natura del suo rapporto con Skipper. L’amico è morto per la mancata accettazione della propria omosessualità. In una società incapace di accostare, allora come oggi, il concetto della forza fisica (di un’icona sportiva o di un leader) alla “sminuente” debolezza, come in questo caso, della ”trasgressione sessuale”, Skipper cerca nell’amato, che lo contraccambia inconsapevolmente, la forza di affrontare il mondo. Brick, però, spaventato dall’accettazione del grande amore platonico sbocciato tra loro, lo deluderà abbandonandolo nel momento del bisogno. Un abbandono, rivelerà finalmente Brick liberando il grande senso di colpa che si porta dentro, che condurrà alla morte dell’amico e alla sua distruzione psicologica.

La consapevolezza della propria “colpa” fa sì che l’ipocrisia, principale protagonista della storia, almeno tra padre e figlio, inizi a dissolversi (urla Papà: “Lo senti Brick? Non lo senti anche tu quest’odore asfissiante dell’ipocrisia?”) permettendo di (ri)creare un’alleanza sincera tra padre e figlio. Il ritmo in scena, spinto dal rapporto ritrovato, cambia, tutti iniziano comportarsi con sincerità, mostrandosi per quello che sono, senza nascondersi più dietro alle apparenze finché, terminata la discussione e presa dal Papà la decisione su come stilare il testamento, ognuno va per la sua strada. Maggie, finalmente, seppur non consapevole della presa di coscienza del marito, trova inaspettatamente un barlume di speranza a cui appigliarsi (da notare la scelta del colore del suo abito: il verde). D’altra parte, “Non c’è nessuno più testardo di una gatta sul tetto che scotta. Lo sai – dice a Brick -, come sai che ti amo”. Inizia a sfilarsi le calze, Maggie, buttandole ai piedi del letto come fa tutte le sere ma, a differenza dell’omonima protagonista del dramma di Williams, condannata alla mancanza d’amore, ha una luce negli occhi che ci fa capire (o credere) che lei questa mancanza riuscirà a colmarla. Ci regala così, per un attimo, l’illusione che là dove amore è esistito, amore può tornare a vivere.

 

La gatta sul tetto che scotta: di Tennessee Williams, traduzione di Gerardo Guerrieri, regia Arturo Cirillo, con Vittoria Puccini, Vinicio Marchioni, Carlotta Mangione, Francesco Petruzzelli,, Franca Penone, Paolo Musio, Salvatore Caruso, scena a cura di Dario Gessati, costumi di Gianluca Falaschi, luci di Pasquale Mari, musiche di Francesco de Melis, una produzione Compagnia Gli Ipocriti.

di Francesca Cecchini

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